I taccuini di Tarrou – 272

Più volte in questi taccuini mi sono definito un uomo superfluo, servendomi di una celebre definizione tipica della letteratura russa dell’Ottocento, nella quale rientrano numerosi personaggi, dal Čackij di Che disgrazia l’ingegno! di Griboedov all’Ivanov protagonista dell’omonima opera teatrale di Čechov, passando per Onegin, Pečorin, Čulkaturin, Oblomov e l’uomo del sottosuolo, tra gli altri.

Ora, che cosa mi rende in buona sostanza un uomo superfluo? C’è una definizione tratta da un dizionario russo che trovo particolarmente calzante, nella quale l’uomo superfluo è descritto come un giovane «che non trova impiego alle proprie forze, alle proprie conoscenze e alla propria intelligenza orientata in modo critico». Ecco, è il fatto che io abbia consacrato la mia esistenza alla letteratura, alla filosofia, a qualcosa, cioè, che non interessa a nessuno al giorno d’oggi, che non garantisce un «impiego» in questo mondo, a rendermi un uomo superfluo. Questa è una prima ragione che potrei definire di carattere sociale: la mia vocazione letteraria, perseguita con coerenza distruttiva, al contrario del caro e mediocre Wilhelm Meister, mi rende socialmente inutile.

A questa prima ragione se ne aggiunge una seconda, di carattere ontologico, dunque ben più profonda, grave e dolorosa: la mia persona, tutta concentrata nello spirito e nel pensiero, nella coscienza e nell’ideale, risulta assolutamente incompatibile con un mondo dominato dall’apparenza, dalla frivolezza, dalla sostanza, dall’utile, dal bene materiale, un mondo in cui l’individuo è soltanto in relazione, in rapporto con ciò che ha. Io sono un puro essere senza avere, e questa è la seconda ragione della mia superfluità.

Infine, c’è una terza ragione di carattere psicologico, di cui ho già parlato in qualche appunto precedente. L’astrattezza, l’autoreferenzialità, la sensibilità romantica, la sfrucoliante, ulcerante sovrariflessione, racchiusa nella definizione di «spremimeningi», la consapevolezza della propria insignificanza, della propria insensatezza, della propria ridicolaggine, della propria meschinità sono aspetti psicologici caratteristici dell’uomo superfluo (difficile dire se essi siano cause oppure conseguenze della superfluità) e della mia persona.

Ampliando l’orizzonte letterario fino ad abbracciare il secolo successivo, il XX, alla definizione di uomo superfluo potrei legare quella di uomo senza qualità di Musil. L’uomo senza qualità di Musil non è tale perché privo di qualità, bensì perché dotato di qualità che nel suo mondo non vengono più considerate tali: anch’io possiedo qualità che non sono più ritenute qualità, qualità che non servono più a niente, perfettamente inutili, vecchie, da buttare, come analizzare un testo letterario, scrivere un saggio o magari un racconto che riveli la terribile verità dell’esistenza umana, che recida le palpebre e mostri le cose per quello che effettivamente sono, essere coerente e restare fedele a se stesso, amare come un mistico ritiratosi nel deserto ama il proprio Dio ecc. ecc.

Ci tenevo a chiarire questo aspetto anzitutto a me stesso, perché tanto che cosa importa agli altri di un uomo superfluo? Un uomo superfluo, di fatto, non esiste. Purtroppo non ho avuto, come Čulkaturin, la fortuna di morire a trent’anni. Anche in questo sono uno zimbello dell’epoca che mio malgrado mi è toccata in sorte, così igienica e salubre, perché «è bello», come scrive il personaggio di Turgenev, «è bello, infine, liberarsi della sfiancante consapevolezza di essere vivi, dell’inquieta e appiccicosa sensazione di esistere!», soprattutto quando si è uomini superflui, perfettamente inutili per se stessi e per gli altri.

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